Scoperta della Sardegna

Introduzione, pp. X-XI – Milano, Il Polifilo, 1966

Autore: Giuseppe Dessì
Lettura: Introduzione, pp. X-XI – Milano, Il Polifilo, 1966
Argomento: La Sardegna e l’essere sardo
Durata: 06:08
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Poiché sono sardo e la Sardegna ha avuto sempre un posto tanto importante nella mia attività di scrittore, devo chiedere ai lettori di volermi scusare se, parlando della Sardegna, dovrò parlare anche di me. Fin dai miei primissimi anni, cioè fin da quando, bambino, seguivo mio padre – Ufficiale di Fanteria – su e giù per l’Italia da una guarnigione all’altra, sempre ho sentito l’importanza che aveva per me l’essere Sardo, l’essere nato a Cagliari invece che in qualsiasi altra città Italiana, di esserci nato e non casualmente, ma perché mio padre e mia madre erano Sardi, radicati in Sardegna da sempre.

Era vivo in me fin da allora un particolare “sentimento dell’Isola”, che tuttavia non credo si possa confondere con l’Insel-spleen che, secondo alcuni scrittori del tardo romanticismo, è la generica e vaga malinconia, il senso connaturato del limite a cui sono soggetti tutti gli isolani, sia essi Inglesi, Neozelandesi, Corsi o Irlandesi, ma il particolare Insel-spleen dei Sardi, cioè una sorta di consapevolezza storica dell’isolamento e del distacco, vorrei dire della incomunicabilità proprio nei confronti di quella Italia a cui la Sardegna è stata sempre considerata etnicamente, storicamente e geograficamente, cosi come il sardo è considerato, per errore, un dialetto Italiano – un senso storico del limite, della fatalità, del destino, che risale alle più remote origini, al confine tra la storia e la preistoria ed è, al tempo stesso, sempre attivo e presente.

Potrà sembrare assurda presunzione parlare di consapevolezza storica a proposito dei turbamenti e del disagio che causavano a me bambino i cambiamenti di residenza di mio padre. Ma è un fatto che la continua contrapposizione, il continuo confronto che ero costretto a fare tra due mondi cosi diversi come l’Italia continentale (e specie l’Italia settentrionale) e la Sardegna del 1910, la difficoltà di conciliare questi due mondi, di farne un tutto unico, conferivano alla mia esperienza infantile un carattere particolare e drammatico, e mi preparavano ad intendere il fondamentale dualismo o bilinguismo che divide e a sempre diviso la vita de Sardi, ponendomi in una posizione privilegiata per comprendere meglio la loro psicologia e certi aspetti della loro storia.

Fatalmente la koinè “Italiana” si diffonde e sempre più prende piede. Gli scambi, la frequenza dei viaggi, la complessità e la rapidità della vita moderna la impongono e finiranno per spazzare via anche l’ultimo accademismo, che appunto quello dialettale. E tuttavia questa koinè implica una coloritura dialettale che ha un’importanza grandissima. L’Italia e un paese lungo.
Un uomo che pur avendo fatto cinque volte il giro del mondo conserva il suo accento genovese, come Nino Bixio; uno che pur avendo letto tous les livres, come Benedetto Croce, conserva un marcato accento partenopeo, dà fiducia, mi sembra un Italiano possibile, un Italiano autentico, vero. Ma per il Sardo la cosa è diversa. Il Sardo ha un modo diverso di essere o di diventare Italiano. Il dialetto che parla (dovrei dire anzi i dialetti) non è un dialetto Italiano, ma, come scrive il Wagner, una lingua romanza indipendente. Non certo una lingua dotta, ma pur sempre una lingua, per la sua morfologia, la sua struttura sintattica, il suo lessico. Non vi è dunque, tra la lingua materna del Sardo e la lingua Italiana comune, “mercantile” o “itineraria” che sia, la gradualità di modificazioni, di trapassi e passaggi che esiste invece tra i dialetti Italiani e la lingua. Vi è un taglio netto, un salto.

Non è esagerato dire che, per il Sardo, l’Italiano è una lingua adottiva. Il provinciale che parte da Arzana, da Orune, da Gonnosfanàdiga, da Arbus, da Sénnori o da Seùi e dopo essere passato per Sassari o Cagliari va a stabilirsi, per ragioni di studio o di lavoro, a Roma, Milano, a Torino o a Pisa, si sentirà straniero più di qualsiasi altro provinciale della Penisola; più straniero di un Abruzzese, di un Siciliano, di un Calabrese o di un Napoletano, anche se poi finirà per ambientarsi molto bene e in tempo relativamente breve. Ma anche quando si sarà ambientato, avrà preso moglie e i suoi bambini cominceranno a parlare il dialetto della città in cui vivono, egli, lo sappia o no, lo voglia o no ammettere, continuerà, nell’intimo, a sentirsi straniero.