Brano tratto da Sale e Tempo in Un pezzo di luna

pp. 41-45, Edizioni della Torre: Il concetto di tempo in Sardegna

Autore: Giuseppe Dessì
Lettura: Brano tratto da Sale e Tempo in Un pezzo di luna pp. 41-45, Edizioni della Torre
Argomento: Il concetto di tempo in Sardegna
Durata: 6:07
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Io ricordo la sua logora bisaccia, le sue dure mani sugherigne dalle unghie spaccate come quelle della pecora, ricordo il candido tovagliolo di lino e la fetta di pane così delicatamente abbrustolita e saporosa, che il vecchio mi offriva, se io capitavo a passar di là con mio padre qualche volta. Ricordo l’odore degli sterpi bruciati nell’aria della mattina. Il tovagliolo lo aveva tessuto la sua trisavola, quand’era giovinetta, forse al tempo degli Aragonesi, prima del trattato di Utrecht; forse la bisaccia aveva fatto parte del suo corredo di sposa, con quegli strani disegni che sembravano fermati a metà strada nella loro evoluzione di simboli, in parte geroglifici e in parte già lettere di un misterioso alfabeto, alla soglia di una sconosciuta civiltà patriarcale: cervi, garofani, doppie croci, sigilli, indecifrabili arcani.

Era da questo mondo oscuro che usciva, come da un forno spento e tiepido, il pane ben lievitato che Proto tagliava appoggiandoselo al petto, con il suo coltello a forma di foglia. Pane fatto in casa dalla giovane nuora, pane di grano duro che per lavorarlo ci vuole tutta la notte quant’è lunga.
Da un pezzo Proto oramai è diventato anche lui oliva, fungo, lumaca… Ma a parte questo, allora, il suo vero alimento era il pane, frutto principale della concorde fatica dell’uomo e della donna, odoroso e nutriente, impastato con acqua, sale e tempo.

E questa è la spiegazione della nostra “pigrizia” isolana: sale e tempo sciolti con l’acqua nella stessa ciotola. Ma da noi, in Parte d’Ispi, non è soltanto il cibo dell’uomo che è condito di tempo. Molti anni fa (ora ci sono le macchine), sull’imbrunire, nei loggiati delle case, era un fitto di pestare di magli. Giovani e vecchi, seduti a gambe larghe, tenevano nella mano sinistra un pugno di fave e la gettavano a una a una sotto il maglio di legno che calava con ritmo costante manovrato dalla destra. Le sue mani ripetevano all’infinito lo stesso movimento mentre il mucchio di fave peste cresceva. Pensandoci mi par di vederli, quegli uomini, seduti in circolo come tibetani con rosari, e capisco come i movimenti delle loro mani, rapidi, alterni, precisi, l’abilità e la sveltezza divenute automatiche , no contattassero con la nenia lentissima mormorata a fior di labbra, con i loro pensieri, l’apparente immobilità non ne era turbata, anzi proprio da essa si generava il movimento , allo stesso modo che dalla immobilità della mano e del braccio della vecchia filatrice ( anzi di tutta la persona un poco inclinata sulla destra) scaturisce la veloce, perpendicolare rotazione del fuso; o il brulichio delle dita tra le sottili strisce di palma sul grembo delle fabbricatrici di cestini nelle assolate strade di Castelsardo.

I moralisti, che nei loro giudizi confondono la lentezza con la pigrizia e sostengono che gli uomini più attivi dormono più a lungo e più profondamente. Considerando attivo chi fa più cose e chi si muove in superficie più che in profondità., costoro hanno certamente ragione. Proto aveva il sonno breve e trasparente del cane. Si buttava tra le mangiatoie dei buoi avvolto nel suo mantello di lana nera e stava lì per un paio d’ore. Poi era di nuovo in piedi con lo stesso odore di selvatico e cominciava a dare la profenda ai buoi. Questo non soltanto quand’era più vecchio e il sonno gli era andato via quasi del tutto, ma da giovane, quando aveva ancora la barba nera.

Un tempo usava, a quell’ora mattutina, anzi ancora notturna suonare la sveglia con il corno- un solo corno per tutto il paese, che sembrava franare lentamente per il fianco del cole. Erano due note lunghe, serene, metà luce e metà ombra, lungamente modulate, così che si udivano nell’aria a grande distanza prima che cominciassero cantare gli uccelli. Sotto le tettoie delle stalle si accendevano dei lumi a olio, qualche debole lampada elettrica; e gli uomini con il loro mantello di lana nera pieno di fili di paglia fino alla punta del cappuccio, cominciavano a dar da magiare le bestie. Riempivano di corta paglia di grano i truogoli rotondi, e con una rapida mescolata ci spruzzavano su una manciatina di fave peste, per condimento. E la paglia nutriva, con quelle poche fave che ogni tanto l’uomo incappucciato tornava a spruzzare nei truogoli, nutriva con quelle poche fave, e col tempo. Ora nessuno più viene a mettermi fretta, a dire fai questo o fai l’altro. Da molti anni nessuno viene più. Sembra che abbiano capito, e mi lasciano in pace. La fretta non la posso soffrire. E’ come il frastuono di queste nostre città, che non da requie, che cessa solo dentro di noi e se chiudiamo gli occhi, qualche volta; o quando, di notte, alziamo la faccia a contemplare la grande lentezza del cielo.