Brano tratto da Michele Boschino
Cap. VII, pp. 77-78 - Edizione Ilisso
Autore: Giuseppe Dessì
Lettura: Michele Boschino Cap. VII, pp. 77-78 - Edizione Ilisso
Argomento: Sentimenti e natura
Durata: 05:33
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Capitolo VII
Quell’anno Michele affittò quasi tutta la terra che aveva preparato e seminò solo il grano che bastava per la provvista di casa e la paga del servo. Dopo il raccolto, licenziò il servo e rivendette i buoi di Arci alla fiera di Santa Croce. Fece tutto questo contro il parere di Maddalena, che dice- va: - Tuo padre la terra l’ha comprata per seminarla, non per darla in affitto agli altri come la gente ricca –. Michele insisteva che conveniva di più far così. La terra affittata rendeva meno sì, ma rendeva ogni anno nella stessa misura, e lo svantaggio veniva compensato. Il servo era stato necessario tenerlo durante la malattia di Giuseppe, perché non si potevano vendere definitivamente i suoi buoi senza dargli un grande dolore; ma ora no, non conveniva più.
Michele non era convinto di quel che diceva, anzi, in cuor suo, doveva riconoscere che Maddalena aveva ragione, e che, per mettere assieme i seicento scudi che ci volevano per ricomprare la vigna, bisognava continuare a lavorar la terra come sempre aveva fatto suo padre. Era il chiodo fisso di Giuseppe, la vigna. Gliel’aveva portata in dote Maddalena, e lui poi, ci aveva lavorato tanto. Avrebbe voluto ricomprarla, prima di andarsene. Anche la sera della grassazione Michele c’era passato davanti, con Cosimo Aneris, e s’era ricordato di suo padre, che ogni volta che passava di là voltava la faccia dall’altra parte sospirando. Nella luce della luna, la vigna, già spoglia, tra le quattro siepi di fichidindia, sembrava anche più grande di quando l’avevano venduta. A quel tempo le viti innestate sui vecchi ceppi non avevano dato ancora frutto. Le aveva innestate con le sue mani, Giuseppe, un poco per volta; e ora se la gode- vano gli altri. Anche Michele, passando di là, aveva sospirato come suo padre, quella sera. Ma ora, cosa gliene importava della vigna? A sua madre non osava dirlo, ma non gliene importava più nulla. Della vigna non sapeva che farsene, lui.
Si sarebbe accontentato di lavorare quanto bastava per il pane. Tutto il resto era in più. Ma una ragione, per Maddalena, bisognava trovarla, e Michele diceva: -Vedete, mamma, con la vendita dei buoi e del carro del povero babbo abbiamo fatto centoventicinque scudi. Anche gli altri verranno -. La donna s’accorava: - Sì, verranno! Verrebbero se tu lavorassi la terra con le tue mani come faceva Giuseppe, invece d’affittarla. Certo che verrebbero! Era l’unica cosa che mi restasse di casa mia. Così l’aspetteremo un pezzo, la vigna del Faraone -. Per tutta la vita suo padre aveva avuto un solo scopo: accumulare pezze, reali e scudi, come una formica accumula chicchi di grano.
Quando ne aveva messo da parte un bel po’ comprava un pezzetto di terra. Così aveva ingrandito il piccolo podere di Spinàlva, aveva impiantato l’orto e acquistato il chiuso per sciogliere al pascolo i buoi, e la terra di Monte Ulìa, che voleva mettere a mandorli. Pensava a Michele, ai figli di Michele, e ai figli dei figli. Ma lui? Lui era solo al mondo, e solo sarebbe sempre rimasto. Anche lui, prima, aveva fatto come suo padre, fin da ragazzo, per quanto inconscia- mente, senza nulla sapere della sua vita. Quando s’era fidanzato con Angela, questo desiderio della proprietà era diventato fortissimo, come un istinto che si fosse maturato con la virilità. Il suo amore per Angela era unito a questo bisogno di guadagno e di possesso: accrescere la roba del padre, che era roba sua, ingrandire la casa del padre, che pure era sua, lavorare per la famiglia futura. Ma quando aveva detto ad Angela che al matrimonio non c’era più da pensarci, e lei se n’era andata senza chiedergli nessuna spiegazione, anche questo desiderio era caduto. Per lui, da allora, era come se la vita si fosse fermata. Se lavorava come prima, se come prima era attento e avveduto, non era più il suo stesso interesse che lo spingeva, alimentato da quell’istinto profondo, ma il bisogno di secondare il desiderio di suo padre, senza mai chiedersene la ragione.
- Per te le mie parole non contano niente - soleva ripetere Maddalena quando cercava di convincerlo a non affittare la terra. Le parole di Maddalena, da quando suo padre era tornato in paese dopo aver scontato la condanna, non avevano più contato nulla per lui, neanche quand’era chiaro il vantaggio, in ciò che sua madre diceva; mentre Giuseppe poteva chiedergli il sacrificio più doloroso ed era sempre ascoltato. Ora Michele era come un albero a cui avessero tagliato le radici più profonde; e non aveva altro desiderio che d’abbandonarsi senza resistere alla stanchezza che gravava su tutto il suo essere. Come avrebbe potuto dire a Maddalena che aveva licenziato Beniamino perché Beniamino era come un occhio aperto e vigile sul suo torpore, un occhio che avrebbe finito per vedere, per penetrare quel segreto che avrebbe dovuto portarsi con sé per sempre, che avrebbe voluto affidare a suo padre per poi dimenticarlo? Non voleva nessuno attorno a sé, voleva star solo. E quando era costretto ad avvicinare qualche persona, aveva paura di tutto, delle parole, degli sguardi e persino del silenzio che il suo impaccio causava. Non voleva che alcuna cosa lo strappasse a quel molle torpore, a quel desiderio continuo di stendersi a terra e dormire.
Ma in quanto a dormire veramente, i suoi sonni non erano più quelli d’un tempo. Gli accadeva d’assopirsi sdraiato bocconi sul carro oppure sulla stuoia di sala gettata fra le mangiatoie dei buoi, ma non dormiva mai veramente. Allora la sua atonia abituale si colorava di una inesplicabile felicità. Il suo sopore era un trascorrere di buio e di sereno, come nuvole in un cielo lunare, un palpito lungo, un profondo respiro d’ombra; e quando quel palpito si faceva più trasparente, era come se, attraverso il velo del sonno, vedesse i buoi, il timone del carro, la legnaia, il tetto, il cielo stellato: tutte cose presenti, reali, a cui lo teneva avvinto il terrore d’abbandonarsi ai fantasmi che popolavano la sua angoscia. Eppure quel velo sottile bastava a separarlo dal presente, divenuto per lui così deserto.
Ogni tanto gli pareva di udire, tra gli altri rumori, la voce del padre, il maglio con cui il vecchio pestava le fave, gli pareva di dover fare qualcosa con lui, l’indomani: ma non gli accadeva mai di vedere suo padre in sogno. Quando dormiva nella stanza accanto alla cucina, d’estate, con la porta spalancata sul cortile, il suo orecchio avvezzo alle notti all’addiaccio, vigilava istintiva- mente i buoi che ruminavano nella stalla; anche nel sonno distingueva il tintinnio, a volte appena percettibile, dei campani delle sue bestie da quelli delle stalle vicine, sapeva quando si leccavano sotto la coscia, quando si grattavano contro il pilastro di granito della tettoia, seguiva i loro movimenti lenti e grevi, vedeva le loro grandi ombre. E nella gioia inesplicabile che quel sopore gl’infondeva, era anche l’orgoglio, sempre condiviso con suo padre, per quel giogo di buoi di cui non si trovava l’uguale in tutta Sigalesa.
Invece i risvegli erano oppressi da un’oscura disperazione. Erano le ore più angosciose della giornata, quelle del risveglio ore o forse anche soltanto brevi istanti; e gliene rimaneva poi la sensazione penosa per tutta la giornata, come un peso da cui non potesse più liberarsi. Quando, prima dell’alba, portava i buoi all’abbeverata fischiando come tutti gli altri boari un’aria di quattro note che accompagnavano il passo delle bestie, quelle stesse ombre amiche che prima erano entrate nella gioia del suo sonno, ora si staccavano dalle altre più piccole in fila all’abbeveratoio, l’opprimevano come un incubo. Continuava a fischiare come gli altri, la piazzetta e la scarpata scoscesa si riempiva di suoni acquatici, ma lui non riusciva a vincere quell’angoscia. Avrebbe voluto che i suoi buoi fossero simili a tutti gli altri di Sigalesa, piccoli, rossi di mantello e con la testa gravata da corna enormi, e lui stesso avrebbe voluto essere un servo, come i boari che fischiavano accanto a lui, non possedere nulla, obbedire a qualcuno come prima aveva obbedito a suo padre.
Il grano lo aveva seminato nel campo di Monte Ulìa, tenuto a maggese, isolato in una distesa di lentischi e di olivastri. Maddalena aveva avuto da ridire anche per questo, non parendole conveniente che Michele scegliesse proprio quel campo fuori mano mentre avrebbe potuto tenersi un pezzo di terra accanto all’orto, e badare così a una cosa e all’altra. Invece, per andare a Monte Ulìa, coi buoi, ci voleva un’ora buona di strada. Michele diceva che le altre terre erano stanche, mentre quella, quasi vergine, avrebbe dato un raccolto migliore. La ragione vera però era questa, che essendo il campo così fuori mano poca era la gente che ci passava, e poi aveva la scusa di star lì anche quando non c’era da scerbare o zappare il grano, per far la guardia. S’era fatto un capanno a ridosso di una quercia e di là, essendo il campo su un pendio digradante, poteva abbracciarlo tutto con l’occhio.
Quando cominciò a spuntare, il grano pareva stento, e dal modo d’accestire si vedeva il segno della gittata del se- me, un po’ incerto, come se l’avesse seminato il debole braccio di una donna. Quei pochi che passavano per la strada lungo il campo, pastori per lo più, carbonai, cerca- tori di funghi, o gente che andava a far legna, si fermavano e scrutavano a lungo, come se volessero veder quanti chicchi erano nati in ogni solco. Michele, se era nel capanno, non si muoveva di là neanche quando il passante, scoprendolo finalmente, gli faceva un cenno di saluto. Se poi capitava a portata di voce doveva sentire anche i commenti. – Se non piove, il tuo grano va male – gridavano. – Cotesti sono terreni asciutti. Qui ci andrebbe una vigna. Una vigna sì che andrebbe bene –. Anche Maddalena volle andare a vedere il grano, e disse la stessa cosa. – Questo è terreno da mettere ad alberi. Tuo padre aveva comprato questo terreno per metterlo a mandorli. Una volta sola ci seminò grano.
– E quella volta andò bene – disse Michele. – Ma quell’anno ne venne dal cielo dell’acqua!
– Anche quest’anno verrà.
– Quest’anno? Vedrai quest’anno! Non farai fatica a mieterlo quel grano.
– Io vi dico che verrà – insisteva Michele. – Ho visto i buoi giocare anche stamattina.
Ma in realtà non gliene importava nulla che piovesse o no. Gli piaceva star nel capanno a fabbricare cesti di giunchi, a guardar crescere l’erba tenera del grano, a lasciar spaziare l’occhio per la cupa distesa di cisti, fino alla pianura già verdeggiante. – Quelle sì che son terre buone – diceva qualche volta a voce alta, come concludendo un ragionamento interiore – quelle sì che ripagano il lavoro del povero contadino. Sono terre che danno anche il sedici per seme –. Non erano idee sue, erano parole che aveva sentito ripetere tante volte da suo padre, che pur essendo affezionato alle terre di Spinàlva, vagheggiava così quelle altre più ricche. Allo stesso modo, oziosamente, cercava che cosa mancasse al suo grano, come se non lo sapesse anche lui che tutto dipendeva dal terreno troppo asciutto. Il terreno era riposato, ingrassato dal bestiame, arato in primavera, intraversato a settembre; ma era asciutto.
Una mattina i buoi, sciolti al pascolo, cominciarono a giocare davvero, cozzando tra loro. Era un indizio sicuro che stava per piovere. Michele lasciò che prendessero qualche boccata di grano, e solo dopo un poco lanciò un sasso per farli allontanare.
La notte, cominciò a piovere; e ai Santi il grano nacque tutto, e veniva su nel campo folto e uguale che pareva seminato con la macchina.
– Avete visto, mamma, che avevo ragione – disse Michele quando Maddalena andò a Monte Ulìa per aiutarlo a zappare il grano. La donna, dal carro, scuoteva la testa senza rispondere. Non voleva ancora darsi per vinta, e neppure far l’uccello di malaugurio, però, di fronte a tutta quella grazia di Dio venuta su come per miracolo, esposta ai pericoli delle secche, della stretta, degli incendi, delicata come il pane che lievita in un canto della stanza più calda.
Ora che il grano era nato non bisognava più dir nulla e affidarsi alla volontà di Dio. Proprio come quando si fa il pane, che basta nulla a farlo andare a male: basta che durante la notte cambi il tempo, basta un pensiero cattivo, a volte; e allora l’abilità e l’attenzione non contano più nulla. Bisogna farsi il segno della croce, prima di cominciare, e pensare a cose buone. Così anche per il grano in erba, per il grano da mietere e da trebbiare. Per questo i pensieri d’odio, anche se covati in silenzio, finiscono per mandare in rovina le famiglie. Lei stessa ora si sentiva pesare come una colpa il rancore che l’aveva staccata dal figlio dopo la morte di Giuseppe. S’erano trovati una contro l’altro, madre e figlio, senza sapere neppure perché: come se un malinteso fosse nato tra loro e ci fosse bisogno d’una spiegazione che nessuno dei due si risolveva ad affrontare.
Lei era scontenta di tutto ciò che lui faceva, e Michele, da parte sua, non l’accontentava neppure nelle piccole cose, sempre ostinato, sempre chiuso in se stesso. A volte le pareva che Michele soffrisse più di lei per la morte di Giuseppe, e ne era gelosa. Ora, per la prima volta, dopo tanti mesi, vedendo il grano folto e lucente, quel groppo d’astio le si scioglieva dentro; ma stava zitta, senza riuscire a dirgli quelle parole che gli avrebbero fatto piacere. Zappava china, con la zappa dal corto manico di corbezzolo, strappando ogni tanto qualche ciuffo di cuscuta o di medica che gettava nella gora dopo averne scosso la terra dalle radici. Le pareva di esser tornata ai tempi lontani, quando lei e Giuseppe scerbavano il grano nel piccolo campo di Spinàlva, più piccolo anche di questo di Monte Ulìa, allora, o andavano a lavorare a giornata nelle terre di Serra Lisone, di Mérula, di Ìscia Ìspina, dove li chiamavano, senza curarsi della fatica.
Così avevano cominciato, e non avevano da scegliere la terra, allora. Dovevano accontentarsi del loro piccolo podere, che era una terra povera, argillosa, che quando pioveva non s’asciugava mai, e quando non piove- va si spaccava come la crosta del pane: ben diversa da quella che avevano comprato tutt’intorno, più tardi. Eppure dava il suo frutto, perché Giuseppe era contento, e anche lei, e lavoravano d’amore e d’accordo. Ora si pentiva dei suoi rancori, dei suoi pensieri ostili; e benché le reni le dolessero, continuava a zappare senza riposarsi. Anzi quel dolore fisico la rendeva tranquilla. «Come sarebbe bello ora» pensava «se Michele sposava Angela!». Era un pensiero, questo, che le tornava sempre anche quando ce l’aveva col figlio: solo che, allora, era un motivo di più per stimarlo un buono a nulla. Tornava sempre e si colorava diversa- mente secondo la disposizione del suo animo. Quando si dimenticava del presente, e si lasciava andare a fantasticare, pensava ad Angela.
Com’era stata bene nei pochi mesi che Angela aveva frequentato la sua casa! La bella compagnia che le aveva fatto! L’aiuto che le dava in tutto! Era attenta, svelta, operosa come un’ape. Ecco com’era Angela, nella casa: come un’ape nell’alveare. Essere lì, a Monte Ulìa, con Michele, e sapere che in casa c’era lei, Angela. Tornare e trovare tutto in ordine, il cortile scopato, la pentola sul fuoco, il telaio coperto col panno di lino, e riceve- re il saluto di quella voce simpatica e allegra. E invece Angela non la salutava neppure, ora, quando la incontrava a faccia a faccia per la strada, come se non si fossero mai viste né conosciute. Non era più la ragazza di prima. Aveva sposato un vedovo con tre figli, s’era fatta più bianca e grassa, perché essendo il marito falegname, non andava più in campagna; e forse non gliene importava niente che Michele non l’avesse sposata. Eppure aveva tanto desiderio di fermarla, di chiederle dei figli. Non aveva mai avuto nulla, contro di lei, e non aveva mai voluto credere a ciò che la gente maligna aveva detto. Per quanto era dipeso da lei, non aveva mai fatto nulla per distogliere Michele. Lei aveva sempre pensato che Michele avrebbe fatto la sua fortuna con una moglie come Angela. Sarebbero nati dei figli, e Michele avrebbe lavorato per loro.
Sarebbe stato com’era Giuseppe da giovane, Michele, quando anche loro speravano di avere molti figli che li aiutassero nella vecchiaia. Perché, a che cosa serve essere un buon lavoratore, come Michele, se non ci sono figli? per chi si lavora? È così che passa la voglia di far bene. Guardava ogni tanto il figlio chino davanti a lei sul solco, e capiva ora perché amava quel campo solitario, e voleva starsene sempre lontano dalla gente. E sentì pietà per lui. Era come un vedovo, come un vecchio che non dovesse aspettarsi più nulla dalla vita. Tale e quale come lei. Michele amava quel campo. Amava la strada che portava a Monte Ulìa, il capanno a ridosso della quercia, gli olivastri che crescevano qua e là in mezzo ai lentischi e ai cisti, il monte boscoso, che pure non guardava mai perché gli dava tristezza con le sue cupe ombre e le sue rocce a picco. Quel campo era suo, ne conosceva ogni zolla, ogni sasso. Più suo di tutta l’altra terra che il padre gli aveva lasciato; e non sapeva egli stesso perché. Amava l’ombra del monte che, a sera, s’allungava fino alla pianura, fino ai grani verdeggianti in lontananza.
Mentre il grano cresceva, lì sotto i suoi occhi, che quasi gli pareva di vederlo venir su e srotolare le foglie tenere dei cimoli, egli andava maturando nella sua mente un progetto: mettere a mandorli quel campo, come voleva fare suo padre. E sapeva quante piante ci avrebbe messo. In due anni le piantine sarebbero cresciute e lui le avrebbe innestate. Misurava il suo lavoro nel tempo. Sapeva le diverse qualità che avrebbe innestato sulle mandorle amare. Avrebbe innestato mandorle di Medàdos, che hanno le foglie larghe come quelle del pesco e il mallo verde, quelle di Sant’Àlvara, che danno un frutto più piccolo, di forma allungata, dal mallo violaceo e consistente, le forestiere, dal frutto piccolo e tondo che si schiaccia tra le dita. Ci pensava tanto che quando il grano cominciò a mettere le spighe, il mandorleto era già cresciuto nella sua mente.
In questi pensieri ritrovava pian piano l’amore del lavoro, disinteressato, senza alcun fine. Per chi lo piantava, il mandorleto? Questo non se lo chiedeva neppure. Lo piantava perché amava quel campo, quel luogo nel quale ritrovava, giorno per giorno, la sua pace.