Brano tratto da Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo
Cap. XIV, pp. 123-124 - Edizione Ilisso: Il frantoio
Autore: Giuseppe Dessì
Lettura: Brano tratto da Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo Cap. XIV, pp. 123-124 Edizione Ilisso
Argomento: Il frantoio
Durata: 05:02
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Capitolo XIV
La cosa che, in quei giorni, attirava di più Giacomo era il mulino. Con questo nome generico si soleva designare non soltanto il frantoio con la macina di granito e gli strettoi a stanga, la stanza degli orci, le vasche di decantazione e il magazzino nel quale le sanse fermentavano e fumavano spandendo il loro odore caldo e acre, ma anche il palmento e le cantine, le stalle dei buoi e dei cavalli, i pagliai, la legnaia e il grande cortile a ciottolato. Tra la casa d’abitazione e il mulino c’era un appezzamento di terreno tenuto a frutteto e orto.
Quell’inverno, nel mulino, c’era un grande movimento, sia perché d’olive ce n’eran tante che il frantoio, lavorando giorno e notte con squadre alterne, bastava appena a smaltire quelle d’Olaspri, sia perché i segantini pistoiesi stavano tagliando i pioppi lungo il fiume, e siccome avevano incominciato il lavoro da più di un mese, il legname ancora fresco e fragrante, ridotto in listelli, travi e tavole, veniva portato dalla tenuta e accatastato via via nel cortile. Non soltanto il mulino ma anche la casa d’abitazione era piena di quell’odore acidulo, e sembrava di vivere in una segheria. La siepe del frutteto avrebbe dovuto segnare una distinzione netta tra casa e mulino, ma con l‘odore acre delle olive frante e pressate e quello del legno di pioppo segato la distinzione non era più che teorica, e la vita rude, faticosa di laggiù arrivava a invader la casa. La traccia delle scarpacce unte dei frantoiani e dei piedi nudi delle donne aveva segnato una pista bruna che univa, attraverso il frutteto, il cortile della casa civile al mulino, e nemmeno la pioggia la cancellava. Sotto il porticato c’era sempre gente del mulino che veniva a chiedere sapone o stracci o un pezzo di corda o il solito fiasco di vinello per la sete. Accadeva anche che i carradori pretendessero di fare entrare nel cortile inghiaiato e curato della casa d’abitazione qualche carro, quando, all’imbrunire, il cortile rustico era stipato di carri e di materiale in modo tale che per scaricare le olive gli uomini dovevano portare a spalla i sacchi fino al frantoio. Allora Leone andava a protestare da Massimo, e se non c’era Massimo, da Alina perché i carri non entrassero a rovinare con le ruote e le zampe dei buoi il battuto di ghiaia che lui aveva appena finito di sistemare.
In pochi giorni, dacché era tornato in città, Giacomo aveva già assistito tre volte a queste discussioni, che erano sempre finite con la sconfitta di Leone. Tutta questa gente e questi odori, rumori e altri segni di una vita rude e faticosa, che fino allora aveva soltanto intravisto, erano per lui un costante richiamo. Il frantoio in particolare lo attirava, vivente e movimentate immagine dell’inverno. Il vasto stanzone era illuminato anche di giorno da polverose e deboli lampade elettriche e dal bagliore del fornello che tratto tratto i frantoiani aprivano per gettarci pezzi di legno ordalici, oppure per accendersi con un tizzo le piccole pipe di terracotta che non abbandonavano mai. Carradori, scaricatori e gente del paese che veniva a informarsi quando il frantoio avrebbe cominciato a funzionare anche per il pubblico si fermavano far quattro chiacchiere al calduccio, e scialli e cappotti umidi di pioggia fumavano attorno al fornello punto si poteva pensare a gente che venisse di lontano, a un favoloso paese invernale, a grandi silenzi e solitudini di una natura indomabile; e per quanto pacifiche fossero le occupazioni di quelle persone e modesti i loro traffici, li nobilitava l’impegno alla lotta con quella natura primitiva e aspra di cui il ragazzo fantasticava, come se vivessero in lontana Groenlandia o in un’era preistorica molto più lontana nel tempo di quanto non fosse la Groenlandia nello spazio quando gli uomini erano stretti in piccole tribù da un ferreo patto di difesa e di offesa.
Questo fantastico eroismo Giacomo lo scopriva in ogni gesto di quei frantoiani coperti di cenci unti, da quando cominciavano ad appilare e i fiscoli di giunco pieni di olive ridotte in una poltiglia rossoscura, che spianavano con il palmo calloso, fino a che, levata dallo strettoio la corta stanga con cui avevano dato i primi giri alla vite mediana, mettevano il suo posto quella lunga di ferro e con impeto aggressivo si attaccavano, prima in tre, poi in quattro, cinque e perfino sei, a testa bassa, come marinai all’argano da cui dipende la salvezza dell’equipaggio. E così, sempre seguendo un corso fantastico e avventuroso di pensieri, entro quella favolosa immagine dell’inverno, trovava un’abilità marinaresca ed eroica anche nel lato del garzone che, a piedi nudi, battuta una manata sulla groppa del cavallo bendato e continuando a incitarlo con la voce, lo sorpassava nell’atto di rivoltare abilmente con la pala le olive nella tramoggia, e si vedeva sulla pista circolare il giuoco alterno dei piedi scalzi dell’uomo e degli zoccoli ferrati del cavallo. Come anche gli piaceva la calma precisione professionale con cui il capo frantoiano, la pipetta tra i denti, tra uno sputo e l’altro raddrizzava la pila dei fiscoli, oppure, seduto su una scranna di ferula (di quelle che i pastori d’Olastri costruivano nelle lunghe sere d’inverno), dopo che i fiscoli avevan dato l’ultima stilla, con l’orciuolo appoggiato a un ginocchio, si fermava a levare cautamente l’olio che montava a galla nella vaschetta, badando a non intorbidarlo con movimenti bruschi, a non farlo tornare a fondo. Operazione così delicata che i conversatori accanto al fuoco tacevano per un momento e stavano a guardarlo. Anche i loro discorsi interessavano Giacomo, non come avrebbe potuto interessare qualunque altro ragazzo di Parte d’Ispi, ma perché pian piano si andava familiarizzando con quell’aspro dialetto, e il senso di ogni parola via via gli si rilevava senza che nessuno intervenisse a spiegarglielo; e aveva la sensazione di vedere da un lato diverso cose già note, ma solo in parte notte, così che il nuovo punto di vista dava straordinario risalto a cose e persone.
Era gente simile a quella da lui già intravista a Olaspri, gente della stessa razza di Porfilio e dei pastori e caprai di Monte Acuto, ma ora capiva meglio come vivevano, e di che vivevano, e che dura vita facevano in quella loro campagne, in quelle casupole di fango e di sassi delle piccole finestre circondate di un orlo di calce, e quali interessi e rapporti corressero tra questa popolazione terrigna e suo padre- rapporti occasionali, anche se frequenti, e improntati a una legge di dura necessità. Suo padre, e con suo padre Alina, la zia Maria, i cugini Alicandia, e lui stesso dovevano essere considerati da quei diffidenti campagnoli come una razza diversa, una razza di intrusi, del tutto estraneo al patto che li univa in tribù e che legava la loro tribù alla terra; così che, senza venir meno a questa legge fondamentale, contadini e pastori potevano rubare agli Scarbo, agli Alicandia, mentre tra loro la proprietà era sacra e inviolabile.
Ognuno di loro aveva il suo poveretto chiuso da siepe, muro e cancello, poche decine di metri quadrati di terra dove seminavano le provviste: ceci, lenticchie, fagioli, fave. C’era qualche filare di viti, qualche albero d’olivo, qualche mandorlo, qualche albero da frutto. Il grano lo sminavano di solito in terreni che prendevano in affitto dal conte Scarbo, o dal Comune. Dai loro discordi Giacomo imparava che uno aveva seminato quattro starelli di grano, che un altro aveva raccolto mezzo sacco d’olive lungo la strada di Basséla (perché le olive che cadono sulla strada sono di chi passa); che una donna che se ne stava lì seduta con i piedi nudi contro la lastra rovente del fornello aveva il cavallo malato ma non chiamava il veterinario perché un’altra volta le aveva fatto spendere cento lire in medicine; che il vecchio Bomidri aveva fatto un vitalizio a favore dei figli, i quali si erano accordati perché passasse un mese in casa di ciascuno di essi, così che avendo sei figli, tra maschi e femmine, Bomidri faceva in un anno due volte il giro del parentado e del paese. Erano povera gente, ma tutti possedevano qualcosa, anche se poco. Ma ciò che li distingueva da loro, dal Scarbo, dagli Alicandia, dai Fumo, dagli Eudes, se non era il poco in confronto al molto, non era il fatto che essi possedessero dei fazzoletti di terra mentre gli Scarbo, gli alicandi e gli altri “ prinzipales” possedevano poderi e vaste tenute, ma questo, che essi possedendo così poco affermavano con quel poco un diritto ben più fondato, un diritto che rivendicavano contro di loro. Perché essi, veri campagnoli, erano una cosa sola con la terra, e la scavano e ci vivano come i conigli e le talpe che ci fanno la tana, mentre Scarbo, Alicandia, Eudes, erano gente venuta di fuori o divenuta estranea per interessi diversi ( la terra si tradisce in una sola generazione, per esempio se si diventa preti o notai o messi esattoriali…), gente che con la terra non aveva più rapporto diretto.
Quei pezzettini di terra, invece, per quanto piccoli, con i dieci alberi, con i tre filari di vite, con quei sassi che ritornavano sempre nelle mani di chi stava lì, curvo, a rompere le zolle, a sfarinarle tra le dita, erano porte che aprivano ai poveri e soltanto ad essi il vero, reale, concreto possesso della terra. Per mezzo di quel pezzettino ognuno di quei poveri si sentiva padrone di tutto, e come uno gnomo poteva scendere nella profondità della terra e risalire ad affacciarsi dove volesse sulle proprietà fittizie degli Scarbo, degli Alicandia, degli Eudes, o entrare nel tronco degli alberi e guardare attraverso le gemme. Qualcosa di profondamente diverso da suo padre sentiva in essi il ragazzo, qualcosa che lo respingeva o lo attirava. Anche nell’allegria eran diversi – quella loro cupa allegria che si manifestava soltanto dopo che avevano bevuto due o tre bicchieri di vino. In mezzo a loro si sentiva allora come un essere invisibile, tanto poco essi sembravano curarsi di lui. Era il suo silenzio che lo rendeva tale, o cos’altro? Se lo chiedeva un giorno che uno dei carradori seduti accanto al fuoco con un lungo pungolo tra le ginocchia raccontava dell’incendio che c’era stato a Olaspri alcuni anni prima. I presenti sapevano tutto per filo e per segno, e ognuno avrebbe potuto raccontare le stesse cose, ma ascoltavano assorti come se quello stesse cantando una canzone. Molti di loro erano tra quelli accorsi dalle vicine campagne o da Ordina, attratti dalla immensa nuvola di fumo che si era levata dai monti. Molti erano accorsi per portare aiuto, altri soltanto per vedere, e se n’erano rimasti seduti tra i cespugli, a guardare da lontano le fiamme che si levavano più alte di campanili. Ma i più però erano lì, armati di scuri, di falci, di scope di frasche, guidati dal conte Scarbo, che si dava da fare anche lui per spegnere l’incendio e salvare quanti più ulivi poteva. Ne erano usciti fuori con i baffi e i capelli bruciacchiati, compreso il conte.
Di olivi, nella tenuta ce n’erano più di diecimila, oltre i mandorli, oltre al bosco, oltre ai pioppi e agli eucalipti lungo il fiume, e nell’incendio ne erano andati soltanto cinquecento. Troppo pochi. Loro si accanivano a spegnere, diceva il raccontatore, ci mettevano l’anima, ma perché lo facevano, se in fondo al cuore erano contenti, com’era contento lui, di vedere i vecchi ulivi avvampare come forcate di fieno? Avrebbe voluto vederne bruciare molti di più, perché diecimila olivi sono troppi per un uomo solo. Tutti presenti, assentivano, dicevano che erano troppi diecimila olivi e che sarebbe stato bene che ne fossero bruciati almeno cinquemila. E nessuno faceva caso a lui, che era figlio dell’uomo che possedeva quei diecimila alberi.
Ma quando suo padre entrava nel frantoio, sembrava persino che fossero contenti di vederlo. E Forse erano davvero contenti, non fingevano. Salutava lui per primo, naturalmente, secondo l’uso di parte d’Ispi e levandosi i guanti si guardava intorno distribuendo altri saluti particolari, informandosi di coma procedeva il lavoro, del numero delle macinate fatte, dei carri che erano arrivati. I suoi guanti non erano nuovi, e nemmeno il quarto cappotto da cavallo con il collo di volpe e nemmeno il cappello a cencio, dal cui nastro un po’ logoro spuntava appena una penna di gazza nera e azzurra. Non avrebbe mai portato in città un simile cappello, un simile cappotto o guanti così scuciti e consunti, eppure bastava guardarlo per capire che sulla terra ci stava per camminarci, non per chinarsi a lavorarla, e che da molte, molte generazioni nessuno della sua famiglia si era mai chinato con la zappa o la falce in mano sulla terra che permette agli Scarbo di vivere agitatamente, singolarmente, di stare così, leggeri, freschi, con una cravatta di picchè bianco fermata da una spilla d’oro, mentre gli altri faticano e sudano. Andava attorno per il mulino, osservava ogni cosa con occhio da intenditore, sbriciolava nel palmo le sanse già pressate, controllava il grado di maturazione delle olive pronte per essere macinate, faceva rapii calcoli sfoggiando il brogliaccio unto che il capo frantoiano apriva sul piano di un vecchio tavolino, sotto una lampadina rossastra.
Tante macinate, tanti litri d’olio, più quelli che si sarebbero ricavati più tardi dalle sanse. Per il tempo che lui stava lì, cessavano tutte le chiacchiere, e nessuno stava a sedere, nemmeno le donne. Sembrava che anche il cavallo girasse più rapido sulla pista. Prima di andarsene, mandava in cantina il garzone a spillare un paio di fiaschi di vino; e Giacomo seguiva l’uomo per vedere le grandi botti panciute col numero dei fischi spillati segnati con altrettante strisce di gesso. La buia cantina prendeva luce da altre finestre senza vetri da cui prendevano ragnatele grevi di polvere. Allo stipite della porta erano attaccati i mezzetti di zolfiniche si mettono accesi dentro la botte vuota, come il garzone altre volte gli aveva spiegato. Avrebbe anche voluto vedere come gli uomini bevevano anche quegli altri due fiaschi ( che non era del solito vinello destinato ai servi, il vino del padrone), ma suo padre, rimettendosi i guanti, gli faceva in cenno col mento e, senza ascoltare le sue proteste se lo portava via tenendolo per mano come un bambino piccolo. Non gli piaceva che stesse lì: Giacomo lo sapeva.
Non voleva che stesse a sentire i loro discorsi. Bisognava, diceva, lasciarli liberi di lasciarli parlare a loro modo, perché “ quando ci sei tu non possono farlo”. Giacomo avrebbe voluto dirgli che invece parlavano liberissimamente, ma non era facile contraddire suo padre. Avrebbe anche voluto spiegargli che, comunque, non erano proprio i loro discorsi che lo interessavano, ma piuttosto la vita che i loro discorsi rivelavano, e l’inverno favoloso. Fuori, in realtà, non faceva punto freddo. L’inverno si scioglieva in un tepore che sembrava inverosimile guardando quel cielo grigio, altissimo e le nuvole scure che incappucciavano Monte Alerto. Un tiepido vento spirava dalla pianura piegando i rami.